1. una premessa

Quando Massimo del Vecchio mi ha inviato a tenere la lezione introduttiva ai corsi e ai laboratori, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico 2012-2013 - proposta che ho accettato volentieri e di cui lo ringrazio - mi sono trovato davanti a una serie di tematiche diverse, tutte a mio avviso meritevoli di essere sottoposte all’attenzione degli studenti e dei docenti. Tematiche tra le quali, per problemi di tempo e di chiarezza, ho pensato inizialmente che fosse necessario sceglierne una. Dopo un’ulteriore riflessione questo orientamento è però cambiato. Invece di preferire una sola tematica mi è sembrato infatti più opportuno proporre una riflessione plurale al cui interno, anche se sinteticamente, si toccassero una serie di questioni oggi al centro del dibattito disciplinare. Mi auguro comunque che il numero piuttosto ampio di problemi che saranno discussi o ai quali, più semplicemente, si accennerà, non impedirà, soprattutto agli studenti più giovani di seguire il filo del ragionamento che cercherò di costruire. Aggiungerò che i temi che verranno trattati vanno considerati come percorsi diversi nell’architettura, tracce per itinerari capaci di disegnare un perimetro problematico il più possibile inclusivo. Tali percorsi definiscono per inciso una sorta di mappa primaria dell’arte di costruire per come essa si configura oggi.

2. una considerazione preliminare sull'architettura

L’architettura è la forma fisica e insieme simbolica delle società. Nello stesso tempo la società stessa è il prodotto primario dell’architettura. Il concetto di società non coincide con quello di comunità. In quest’ultimo esiste infatti una valenza unificante, mentre la società comprende anche il conflitto tra posizioni diverse, un conflitto che nel corso della sua storia l’architettura ha saputo utilizzare per dare vita a ambienti urbani di straordinaria intensità spaziale. Si pensi ad esempio alle piazze medioevali delle città norditaliane, nelle quali due poteri, la Chiesa e il Comune, divise da tensioni secolari, hanno trovato il modo di costruire ambienti complessi, armonici e unitari, nei quali le contrapposizioni si ricompongono in una visione positiva del futuro. Tuttavia, il fatto che l’architettura sia la forma fisica e insieme simbolica della società non significa che il sapere che la definisce sia una funzione della sociologia. Occorre infatti tenere presente che il progetto storico che motiva l’architettura non può essere in alcun modo costretto all’interno delle discipline con le quali esse si deve confrontare. L’architettura deve poter configurare liberamente ogni tipo di futuro, a patto che questa proiezione verso il domani sia alimentata da uno spirito aperto e innovativo.

3. Architettura e globalizzazione

L’architettura è la forma fisica e insieme simbolica delle società. Nello stesso tempo la società stessa è il prodotto primario dell’architettura. Il concetto di società non coincide con quello di comunità. In quest’ultimo esiste infatti una valenza unificante, mentre la società comprende anche il conflitto tra posizioni diverse, un conflitto che nel corso della sua storia l’architettura ha saputo utilizzare per dare vita a ambienti urbani di straordinaria intensità spaziale. Si pensi ad esempio alle piazze medioevali delle città norditaliane, nelle quali due poteri, la Chiesa e il Comune, divise da tensioni secolari, hanno trovato il modo di costruire ambienti complessi, armonici e unitari, nei quali le contrapposizioni si ricompongono in una visione positiva del futuro. Tuttavia, il fatto che l’architettura sia la forma fisica e insieme simbolica della società non significa che il sapere che la definisce sia una funzione della sociologia. Occorre infatti tenere presente che il progetto storico che motiva l’architettura non può essere in alcun modo costretto all’interno delle discipline con le quali esse si deve confrontare. L’architettura deve poter configurare liberamente ogni tipo di futuro, a patto che questa proiezione verso il domani sia alimentata da uno spirito aperto e innovativo.

4. Alcuni caratteri della globalizzazione

Se si volesse sintetizzare la condizione globale per ciò che riguarda l’architettura occorrerebbe chiarire alcuni fenomeni di particolare rilevanza. Fenomeni da iscrivere in un passaggio fondamentale, vale a dire il fatto che da qualche anno gli abitanti delle città hanno superato quelli che vivono nelle campagne. La città, la postcittà occidentale e quella orientale è divenuta così il centro assoluto della vita globale, una nuova forma di esistenza che non avrebbe avuto origine, è bene ricordarlo, senza la rivoluzione digitale, che ha fornito alla globalizzazione stessa i suoi strumenti comunicativi, rappresentando nello stesso tempo il suo modello. È ormai un fatto riconosciuto da tutti la straordinaria forza dei social network nel produrre movimenti di opinione di rilevanza mondiale. L’accelerazione dello sviluppo, con la relativa crisi energetica e con la nascita della questione ambientale ha prodotto una inarrestabile crescita urbana, che ha visto la gigantesca espansione di megalopoli come Shanghai, Seoul, Kuala Lumpur, ma anche San Paolo e Città del Messico. Al selvaggio e nello stesso tempo eroico ampliamento delle città globali, si è opposto, ormai da molti anni, il pensiero della sostenibilità, che va dall’estremo della decrescita serena, teorizzata da Serge Latouche, alle buone pratiche di un ecologismo che crea un equilibrio tra sviluppo e tutela dell’ambiente, auspicando il ritorno a economie circoscritte, sintetizzate dallo slogan del Kilometro zero. La sostenibilità è oggi identificabile come una categoria totale che sovrintende a ogni proposta progettuale, anche se è necessario chiarire che con questo termine non si deve intendere soltanto il contenimento dei consumi energetici e un migliore comportamento ambientale degli edifici e delle città. In effetti sostenibilità va intesa come un rapporto più armonico ed equilibrato tra i vari livelli problematici dell’abitare. Altri aspetti della condizione globale sono l’interdipendenza tra tutte le varie entità politiche e sociali che ne fanno parte; la simultaneità di ciò che accade, per cui non ci sono più spazi di compensazione; la difficoltà se non proprio l’impossibilità di costruirsi attendibili schemi interpretativi della realtà per il grande numero dei dati da metabolizzare e la velocità dei flussi informativi; la incontrollabile prevalenza dei media, che costruiscono con incessante energia le grandi mitologie planetarie che plasmano la vita degli abitanti del pianeta suscitando desideri, suggerendo opinioni, orientando i comportamenti collettivi. Tutto ciò è alla base di una vivace e a volte drammatica dialettica tra ciò che appartiene alla massa e ciò che concerne l’individuo. Una vivace dialettica che agisce anche, e soprattutto, sull’abitare. Per questo occorre che gli architetti, ma in prima istanza gli studenti, elaborino un proprio punto di vista consapevole sulla condizione globale nel suo rapporto con l’architettura. Se esistono molti teorici della positività della globalizzazione non sono poche le posizioni ad esse contrarie.

5. Aspetti della situazione attuale dell'architettura

Il terzo argomento che vorrei discutere riguarda alcune coppie antitetiche che caratterizzano oggi il mestiere dell’architetto. Alcune di queste provengono da lontano, altre sono più recenti. In ogni caso esistono due atteggiamenti fondamentali rispetto a queste dualità conflittuali. Alcuni architetti tendono a ricondurre a una sintesi tali coppie antitetiche, altri si limitano a rappresentarle. Qualche anno fa si riteneva che queste dualità conflittuali fossero contraddizioni che andavano superate. Oggi si tende invece a pensare che sia più agevole e produttivo limitarsi a sottolineare una loro possibile compresenza. L’architettura come un sapere che possiede una sua autonomia o che costantemente fuoriesce da se stesso per misurarsi con altre modalità conoscitive e operative; l’architettura come esito di un sistema di regole o come effetto del caso; l’architettura come conseguenza dell’urbanistica, delle proiezioni della sociologia e dell’antropologia o come risposta a problematiche specifiche e circoscritte; l’architettura come risultato di un insieme di scelte ispirate a un meditato naturalismo - si pensi agli studi morfologici di D'Arcy Wentworth Thompson - o, al contrario, come espressione di processi di astrazione; l’architettura come un sistema chiuso o aperto, vale a dire risolto in se stesso o prosciolto nell’ambiente; l’architettura come una realtà unitaria o come risultato del montaggio di frammenti; l’architettura come materializzazione di una grandezza ideale e concreta o, all’opposto, come manifestazione della volontà di non sopraffare la scala umana, preferendo in questo senso la dimensione media e piccola; l’architettura come costruzione effimera, immessa in una temporalità scorrente ed evolutiva o l’architettura come qualcosa di durevole; l’architettura come una realtà o come il simulacro di questa stessa realtà, una dualità oggi sbilanciata verso la rappresentazione; l’architettura come espressione di un ordine o come ambito di un disordine inteso come un’affermazione di libertà e come trascrizione della sovrapposizione caotica dei flussi urbani e delle informazioni che pervadono il territorio e la città; l’architettura come strumento che costruisce luoghi o che, al contrario, si fa nel territorio e negli insediamenti urbani contemporanei materiale per i non luoghi, quegli spazi senza identità di cui ha scritto Marc Augè sono alcune delle principali dualità concettuali che seguono oggi la ricerca architettonica, conferendo ad essa una certa incertezza strategica e una consistente difficoltà a realizzare ciò che essa propone. Il tutto all’interno di una dualità culturale che va oltre l’architettura, ovvero la contrapposizione tra moderno e contemporaneo, ovvero tra una costruzione consolidata e condivisa di valori e un sistema di fenomeni eterogenei che accadono in questo periodo.

6. Tre aspetti fondativi

Ho accennato alla globalizzazione e all’esistenza nell’architettura di alcune coppie antagoniste, alcune delle quali presenti da sempre, altre che sono state espresse recentemente a seguito dell’evoluzione del dibattito disciplinare. Coppie antagoniste che richiedono di essere risolte o semplicemente restituite con forza e precisione. Affronterò ora un altro percorso per l’architettura, partendo questa volta da tre aspetti di natura fondativa, che passerò in rassegna brevemente, soprattutto non senza ricordare, agli studenti presenti, la differenza che intercorre tra opinioni e idee, ovvero tra giudizi e proposte. Occorre tenere presente, da questo puto di vista, che le idee si riconoscono rispetto alle opinioni, per il fatto che producono inizialmente un netto rifiuto. Il primo aspetto consiste nella necessità, che ritengo prioritaria, soprattutto per i giovani che si avvicinano al nostro mestiere, di costruirsi una propria definizione orientativa di architettura. Proprio per le intrinseche complessità di questa disciplina, che è a metà tra scienza e arte, non è possibile sottrarsi all’esigenza di dotarsi di un proprio codice di accesso che consenta di sapere come procedere negli infiniti strati problematici che essa presenta. A proposito di teoria va detto che dare vita a una costruzione concettuale che sia solida e nello stesso tempo evolutiva non è possibile ricorrendo solo al sapere che si può ricavare dalla rete. Internet è un straordinaria risorsa conoscitiva ma da sola non è sufficiente. Per dotarsi di un vero sapere chi si avvicina progressivamente all’architettura non deve dimenticare lo studio sui libri in quanto la qualità della riflessione che la lettura tradizionale permette di ottenere non si raggiunge con altri mezzi. In particolare la lettura possiede una temporalità specifica che offre alla mente ampi spazi di organizzazione e di elaborazione delle informazioni. Spazi che il digitale non offre. Ho sottolineato questa differenza perché ho potuto constatare come docente il progressivo abbandono della lettura. Il secondo aspetto, derivante direttamente dal primo, si riconosce nella consapevolezza della necessità di un pensiero teorico. Un pensiero da mettere in relazione con una conseguente idea di pratica. Ricorda Vitruvio, il padre dell’architettura occidentale, che senza teoria non è possibile ottenere risultati architettonici significativi. Per contro anche l’assenza della pratica, sempre per Vitruvio, risulta dannosa, perché in questo modo si coltiverebbe solo il lato speculativo dell’architettura, di cui non si comprenderebbe fino in fondo la dimensione costruttiva. Il terzo aspetto, derivato anch’esso direttamente dal primo, si identifica nella esigenza di progettare e realizzare nel tempo una personale raccolta di testi di architettura. Si tratta di un’avventura entusiasmante nella quale il percorso formativo di uno studente e dell’architetto che diverrà trova una rappresentazione esauriente nei libri che via via si depositano sugli scaffali della sua libreria. A questo proposito voglio ricordare la bellissima biblioteca che Paolo Portoghesi ha costruito a Calcata, come una preziosa estensione della sua casa, una sorta di accogliente monumento a un’idea di architettura ampia e molteplice, una sorta di affresco tematico nel quale la soggettività critica del maestro romano incontra l’essenza collettiva o, meglio, comunitaria del costruire. Sono sicuro che gli studenti oggi presenti in quest’aula comprenderanno il profondo fascino che emana lo scegliere e il leggere nel tempo una serie di libri che racconteranno un’avventura conoscitiva che non ha fine. Tornando al primo dei tre punti elencati fornirò una mia definizione di architettura coniata nel lontano 1980. Contenuta nel volume L’architettura didattica, essa recita: “Il fine primo dell’architettura è quello di esprimere per mezzo del suo fine secondo, il costruire, il senso dell’abitare dell’essere umano sulla terra”. In breve per me il ruolo dell’architettura consiste nel migliorare l’abitare nell’intenzione di aumentare la libertà degli esseri umani, di incrementare la loro felicità, come diceva anche Le Corbusier, di rendere più complessa e insieme più aperta la comunità, senza con questo ignorare i conflitti che la attraversano. Conflitti da ricomporre volta per volta, seppure non definitivamente, tramite sintesi superiori. In breve l’architettura serve alla vita, perché ci difende dagli accidenti esterni nel momento stesso in cui è la forma visibile della società. Per quanto detto l’architettura è un’arte positiva, nel senso che essa non può mettere in scena il dolore, il disagio, la delusione, il rimpianto, il tragico, il nulla. Queste dimensioni sono proprie della letteratura, della poesia, dell’arte figurativa, del cinema. All’architettura spetta trovare soluzioni efficaci, durevoli ai problemi funzionali e rappresentativi, nonché offrire quella bellezza che per Stendhal era una promessa di felicità.

7. La Facoltà di Architettura di Roma

Veniamo ora a una questione molto importante, quella della formazione. Agli studenti che cominciano quest’anno il loro percorso verso l’architettura, ma anche a quelli più avanti negli studi, vorrei ricordare che l’architettura in cui siamo oggi, progettata dall’architetto Enrico Del Debbio, una figura centrale dell’architettura italiana degli Anni Trenta, intermedio tra modernità e tradizione, è il primo edificio ideato e costruito in Italia per ospitare una Facoltà di Architettura. Quella di Roma è infatti la prima del nostro paese. Essa fu fondata nel 1920 da Gustavo Giovannoni all’interno di un progetto formativo che aveva al suo centro l’idea di architetto integrale, vale a dire un progettista in grado di conciliare organicamente diversi saperi, al fine di dare vita a concezioni architettoniche unitarie. Questo modello restò in vigore per più di quaranta anni alimentando più generazioni di progettisti, che avevano a disposizione conoscenze teoriche e nozioni pratiche fortemente strutturate e stabilmente articolate. Questa impostazione, fortemente orientata verso un’attività professionale ancora elitaria, fu violentemente attaccata da Bruno Zevi che nel 1963, nel famoso Convegno del Roxy, quasi gli stati generali della Facoltà di allora, propose come alternativa un sistema didattico basato su una riproposizione critica dello sperimentalismo moderno, da lui contrapposto all’accademismo del precedente assetto formativo. In accordo con quella ripresa di temi avanguardistici che caratterizzò la cultura italiana all’inizio degli Anni Sessanta - gli stessi in cui nacque il Gruppo 63 - l’autore di Architettura in nuce, sosteneva la necessità che l’architetto si ricollegasse teoricamente e concretamente ai fenomeni territoriali e urbani che si stavano verificando in quel periodo. Si tratta della stagione che vede l’esordio delle ipotesi sulla città-territorio, o città-regione, una formula nella quale l’urbanistica si univa all’architettura in nuovi ordinamenti scalari. Ludovico Quaroni e Luigi Piccinato dettero il loro sostegno a questa svolta radicale, che doveva avere come esito un architetto movimentista, aperto al nuovo, cultore della complessità, portato allo sradicamento più che alla ricerca di punti fermi. Secondo Bruno Zevi questa nuova figura di progettista si sarebbe immersa nel flusso dei cambiamenti partecipando pienamente del dinamismo della città contemporanea. Il legame con il passato veniva per un verso reciso a favore di una proiezione totale verso il futuro, per l’altro era recuperato come un insieme di tessiture problematiche da una lettura orientata della storia dell’architettura, chiamata dallo stesso Bruno Zevi la critica operativa. Il progetto zeviano fu attivo fino all’inizio degli Anni Ottanta, quando l’avvento pressoché improvviso del Postmodernismo, promosso principalmente da Paolo Portoghesi, riportò in primo piano l’attenzione per un’architettura della memoria che intendeva riscoprire il valore dei luoghi in alternativa all’atopia moderna scommettendo, anche sulla scorta delle Pop Art, sul valore estetico e sociale dell’immaginario mediatico. Circa un decennio dopo il Postmodernismo fu soppiantato dal Decostruttivismo, diffuso in tutto il mondo nel 1988, a seguito di una mostra al Museum of Modern Art (MOMA) di New York organizzata da Philip Johnson e Mark Wigley. Da allora a oggi la Facoltà di Architettura di Roma ha vissuto una serie di fenomeni non proprio positivi, tra i quali un periodo in cui l’offerta didattica si fece così specialistica da aumentare a dismisura l’offerta formativa, che per questi motivi divenne estremamente frammentaria nonché, in parte ripetitiva. Attualmente il sistema formativo della nostra scuola si sta riqualificando, ma ciò che non appare ancora sufficientemente chiaro è la sua architettura tematica. Ciò appare come un ritardo preoccupante data la condizione globale dell’architettura, di cui ho già parlato. Una condizione che esige alcune dotazioni extralocali, quali le conoscenze di più di una lingua straniera - tra queste l’inglese è obbligatorio - un’attitudine a lavorare in contesti diversi, la capacità di comprendere velocemente le specificità dei problemi all’interno di particolari notazioni tecnico-programmatiche, una notevole creatività digitale. I giovani sono per più di un verso favoriti in questo processo formativo. Nativi digitali essi possono usufruire dei circuiti Erasmus, visitare con una certa facilità paesi e città fuori dei confini nazionali usufruendo delle più vantaggiose opportunità di viaggiare, partecipare a workshop, frequentare dottorati e master - aperture che la mia generazione non aveva a disposizione. Per un giovane architetto di oggi avere visitato molte città in tutto il mondo è, più o meno, un fatto consueto, così come aver fatto esperienze di lavoro all’estero. Nonostante queste nuove opportunità, senza dubbio notevoli la formazione, svolgendosi in una università da qualche decennio diventata di massa, non è certo facile. Il rapporto con i docenti non è più personale, ma mediato da una serie di schemi istituzionali, il programma degli studi è sempre più rigido e compartimentato; le Facoltà non sono adeguatamente attrezzate per un lavoro sperimentale; le attività culturali extra-didattiche sono sempre più limitate data la scarsità delle risorse; i giovani non hanno sufficiente possibilità per realizzare iniziative autonome; libri e materiali didattici sono estremamente costosi. Eppure restano molti spazi interstiziali attraverso i quali gli studenti possono inserirsi, anche disturbando con azioni culturali mirate un sistema che affida solo alla sua efficienza quantitativa la propria legittimazione. Gli studenti non possono sentirsi vincolati da una struttura troppo meccanica e ricorsiva ma debbono essere liberi di utilizzare tale struttura secondo le proprie aspirazioni e le proprie intenzioni - inserendo in essi enzimi di innovazione e al contempo - evitando di utilizzare quegli apparenti spazi franchi che paternalisticamente l’organizzazione accademica lascia a disposizione degli studenti. Questi stessi sono sollecitati per questo a inventare circuiti extraformativi autogestiti e alternativi. Tenendo anche presente che ciò che ostacola una formazione consapevole è la catena di montaggio fatta di frequentazione dei corsi e dei laboratori e di esami, una serialità che è bene a volte interrompere a favore anche di momenti di vuoto, spesso occasioni di scoperte essenziali.

8. Roma

Roma è una delle poche capitali mondiali della cultura e dello spirito. È stata il centro di un impero, è oggi il cuore di una delle tre grandi religioni monoteiste, è assieme ad Atene la madre dell’architettura occidentale ma anche di quella moderna, come ci ricorda l’opera di Le Corbusier, di Mies van der Rohe, di Louis Kahn e di molti altri maestri. Roma è stata oggetto di infinite narrazioni. Tra i tanti letterati che hanno scritto su di essa pagine memorabili vorrei elencarne alcuni, non tanto per la qualità delle loro opere ma per una preferenza personale. Tra gli stranieri ricordo Joachim du Bellay, Johann Wolfgang von Goethe, François-René de Chateaubriand, Sigmund Freud, Rainer Maria Rilke; tra gli italiani Gabriele d’Annunzio, Carlo Emilio Gadda, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Montefoschi, Marco Lodoli. Roma ha ispirato registi come Vittorio De Sica, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini che hanno tratto dalle sue strade e dalle sue piazze immagini nuove, sorprendenti anche per chi ci vive. Molti docenti della Facoltà di Architettura di Roma l’hanno messa al centro della propria ricerca. Tra questi basterà citare, sempre secondo una selezione molto personale, Marcello Piacentini, Saverio Muratori, Ludovico Quaroni, Bruno Zevi, Gianfranco Caniggia, Arnaldo Bruschi, Paolo Portoghesi, Paolo Marconi, Vieri Quilici, Sandro Benedetti, Gianfranco Spagnesi, Manfredo Tafuri, Giorgio Muratore, Alessandra Muntoni, Clementina Barucci, Francesco Paolo Fiore, Gianni Accasto, Vanna Fraticelli, Renato Nicolini, Piero Ostilio Rossi, per comprendere attraverso il loro lavoro quante letture di se stessa Roma ha saputo suggerire. Queste personalità della nostra scuola hanno dato di Roma letture diverse, a volte molto contrastanti, che si sono affiancate a interpretazioni di altri studiosi come Leonardo Benevolo e Italo Insolera. A questi nomi aggiungo quelli del Gruppo Stalker, e di Marina Natoli, architetti che da qualche anno hanno intrapreso una ricerca conoscitiva e creativa su Roma attraverso un’esperienza fisica degli spazi urbani e degli edifici che li delimitano fatta attraverso il camminare. In questo modo essi sono riusciti a coniugare la conoscenza storica con i suggerimenti teorici provenienti da Henry David Thoreau, da Charles Baudelaire, da Walter Banjamin e da Guy Debord, messi a reagire con le suggestioni analitico-mnemoniche della psicogeografia. Tornando a un passo precedente vorrei chiarire, per evitare malintesi, che il breve elenco di personalità proposto nelle righe precedenti non riguarda i molti architetti di importanza nazionale e internazionale che si sono formati a Roma, ma solo alcuni di coloro che si sono confrontati in molti modi con l’inestricabile stratificazione tematica che essa propone. Studiare architettura nella nostra città è un fatto positivo ma anche rischioso. Si vive infatti in un contesto urbano quanto mai denso di temi e di motivi fondamentali per la propria formazione, ma è proprio il fatto di averli a portata di mano che rende queste presenze uniche in un certo senso invisibili. Inoltre la competizione indiretta con coloro che da Roma hanno saputo individuare elementi determinanti per la propria architettura finisce con il diminuire la nostra fiducia nel poter ripetere la stessa esperienza. Tuttavia è un’altra la dimensione con la quale Roma ci costringe a misurarci. Essa è quella del tempo. Lo slogan Roma città eterna è meno scontato di quanto possa sembrare. È interpretabile infatti, sia sul piano religioso sia su quello laico in due modi. Il primo vede Roma come una città che durerà per sempre, anche se potrà cambiare; il secondo la considera come una città nella quale il tempo stesso non può intervenire. In realtà queste due interpretazioni sono compresenti, interagendo costantemente. Roma è in grado di modificarsi solo se ogni sua trasformazione non ne cambia il senso e il carattere. Agire all’interno di questa contraddizione è l’invariante dell’architettura romana, oltre a configurarsi come un paradigma che da Roma si fa regola valida per ogni luogo, misura universale di ogni architettura. Tutto ciò all’interno della consapevolezza che ogni città è un organismo vivente che esprime sempre un suo progetto di esistenza. Un progetto che ciascun architetto che voglia modificare un insediamento urbano deve comprendere con empatica attenzione.

9. Il progetto

All’interno della serie di percorsi nell’architettura che sto tracciando merita un rilievo particolare l’idea di progetto, l’atto che identifica più di ogni altro il mestiere dell’architetto, il momento che richiede l’intero suo sapere e tutta la sua capacità di previsione. Con la parola progetto si intende quell’insieme di scelte che consentono di realizzare un determinato obiettivo. Non limitata all’architettura questa nozione implica la piena consapevolezza di ciò che si vuole realizzare, gli strumenti necessari per ottenere il risultato al quale si vuole pervenire, il controllo del processo molteplice, e a volte non del tutto prevedibile, che porterà alla materializzazione di ciò che è stato immaginato. Ho detto in un’altra sezione di questo discorso che il compito dell’architettura è quello di migliorare l’abitare. Il progetto è l’atto che permette che questo compito venga svolto. Tuttavia non è sufficiente che l’architetto risponda alla domanda che gli viene posta. Occorre infatti che, oltre a soddisfare un’esigenza che l’abitare ha espresso – costruire nuove case, restaurare edifici preesistenti, predisporre infrastrutture, creare parchi e giardini – l’architetto sappia rivelare anche necessità e aspettative ancora implicite. Inoltre egli è tenuto a produrre un’innovazione conferendo al contempo all’opera quella dimensione estetica che costituisce il vero obbiettivo del suo impegno progettuale. Un impegno che non si esaurisce con l’ultimazione dell’opera. Il progetto contiene infatti anche le indicazioni per orientare le trasformazioni che nel tempo un edificio quasi inevitabilmente subirà. Esso è infatti il codice genetico dell’opera. Pensandolo il suo autore, che deve far precedere le sue scelte da analisi accurate, da un confronto partecipativo con i futuri utenti e da un intenso rapporto con la committenza, deve saper anticipare ciò che presumibilmente accadrà al suo edificio nella sua esistenza, quasi sempre più lunga di quelle di chi l’ha ideato. Per quanto detto il progetto è dunque un atto di conoscenza e di trasformazione dell’abitare, al fine di migliorarlo, che deve collocarsi in una visione della realtà senza però cadere in quel determinismo per il quale tutto è già prescritto, limitato, definito. Un determinismo convenzionale e ripetitivo. Il progetto è chiamato infatti – si pensi all’importanza per l’architettura dell’utopia – a stabilire con la realtà stessa una dialettica tra l’interpretazione delle condizioni esistenti e la messa in atto di scelte che vanno oltre, e a volte contestano, queste stesse condizioni. Occorre inoltre dire che le varie teorie sul progetto che si sono sviluppate nel Novecento hanno dato luogo a uno scenario duplice e conflittuale. Il progetto non è stato considerato come la manifestazione concreta di un’idea a priori ma è stato visto come l’esito di un processo, a volte laborioso, fatto di avanzamenti e arretramenti, di diversioni e di pentimenti, di sovrapposizione o di selezione di temi per cui ciò che viene prodotto alla fine è un a posteriori. Questa concezione fenomenica non è però del tutto esatta. È inevitabile avere in mente una configurazione preliminare, quell’embrione, espresso dagli schizzi iniziali, nel quale l’opera già mostra i suoi tratti essenziali. Il processo progettuale va per questo interpretato come l’esito di una dialettica tra questa configurazione preliminare e le variazioni, anche sostanziali, che essa subisce durante l’elaborazione progettuale. C’è poi da osservare che il progetto è interessato anche da un’altra dialettica vitale, quelle tra la totalità dell’architettura, con la quale esso non può non confrontarsi e la parzialità della situazione paesistica e urbana in cui la futura opera si situerà. Un ulteriore aspetto del progetto architettonico riguarda la necessità che esso si strutturi attraverso una sapiente interpretazione della categoria primaria della misura, una categoria che si divide tra quantificazione e spiritualizzazione. Essa infatti regola la relazione tra gli elementi fisici dell’edificio - elementi che essa ha intanto dotato di grandezze opportune – e nello stesso tempo stabilisce tra di essi un ordine gravitazionale fatto di attrazioni e distanziamenti che evoca la dimensione cosmica. Tale ordine si definisce attraverso una gerarchia che consente di disporre le componenti del progetto secondo la loro importanza. Questa prevalenza può essere espressa in modo esplicito o restituita in termini attenuati. Un’ultima considerazione. Progettare comporta un intenso e incessante esercizio mentale, una disciplina rigorosa e una grande continuità di lavoro. Tanto più si riesce a far convergere l’attenzione sui problemi essenziali di ciò che si vuole costruire tanto più si libera la propria capacità creativa. Una capacità che si esalta se si ha la forza di scommettere su pochissime idee, al limite solo una. Progettare consiste quindi nell’escludere più che nell’includere ciò al fine di concentrare al massimo le nostre energie per ottenere un risultato che alluda a un’espressione potenzialmente assoluta.

10. Caratteri generali dell'architettura italiana

Pur nelle sue notevoli differenze interne l’architettura italiana si riconosce in alcune categorie. La prima è un equilibrio tra tradizione e innovazione, un compromesso il quale, anche se non è sempre positivo, è comunque riconoscibile in pressoché la totalità delle architetture ideate e costruite nel nostro paese. Tale equilibrio si rende necessario data la grande stratificazione di tracce riscontrabili nel terreno e nelle città del nostro paese. Una stratificazione per la quale il progetto si conferma in Italia come una sorta di vera e propria scrittura interlineare. Ernesto Nathan Rogers ha dato per inciso di questa relazione un’interpretazione avanzata con la sua teoria delle preesistenze ambientali. La seconda categoria è la centralità della città. L’architettura moderna italiana ha nel Novecento corretto la vocazione atopica e astratta delle avanguardie riportando in primo piano il rapporto tra città e architetto come fondamento di una progettualità consapevole, aperta e organica. La terza categoria è una combinazione unica tra concretezza e idealizzazione. La nostra architettura si esprime in corpi dalla plastica nettamente profilata capaci al contempo di apparire come immagini smaterializzate. Le città ideali – si pensi alle famose tavole di Urbino, Baltimora e Berlino - del Rinascimento rappresentano una delle manifestazioni più evidenti di questa categoria, città che uniscono una grande precisione tipologica e formale a un’atmosfera rarefatta, quasi l’effetto di un sogno. La compresenza di concretezza e di idealizzazione è avvertibile soprattutto nel paesaggio, nel quale i dettagli più incisi sfumano in una visione nella quale le cose trapassano l’una nell’altra in una superiore unità. Queste tre categorie, le quali hanno dato vita a quel carattere che ho definito in un libro omonimo come la misura dell’architettura italiana, categorie che possiamo considerare positive trovano un loro contraltare negativo in un esteso disinteresse per la tecnica originato forse dalla persistenza dell’influenza idealistica nella cultura italiana; in un senso accentuato e limitativo della località e in una concezione eccessivamente individuale, che si spinge a volte fino a un esteso e autoreferenziale soggettivismo, del mestiere dell’architetto.

11. La condizione del territorio, delle città e dell'architettura in Italia

Proseguendo in questa veloce ricognizione di percorsi nell’architettura vorrei dedicare qualche osservazione al nostro paese e alla sua attuale condizione. Come si è potuto constatare seguendo alcuni eventi sismici, come quello dell’Aquila e il più recente in Emilia, l’Italia è molto fragile. Lo è perché il nostro territorio è soggetto, oltre che ai terremoti, a una serie impressionante di frane, di smottamenti, di inondazioni. Questi fenomeni sono solo in parte naturali, moltiplicando i loro effetti a causa della scarsa manutenzione degli ambienti montani, agricoli e urbani, della devastazione ambientale che, soprattutto a causa dell’abbandono crescente di superfici coltivate lascia indifeso il suolo, di edificazioni improprie, dell’abusivismo, che ha compromesso un grande numero di aree, in particolare dal Centro verso il Sud, della qualità non sempre buona delle costruzioni, anche di quelle di valore storico e architettonico. Discende da questa situazione la necessità di ricostruire letteralmente gran parte del territorio italiano e di provvedere a un esteso consolidamento del patrimonio edilizio e monumentale. Ciò che attende quindi le ultime generazioni di architetti è un lavoro di restauro territoriale, urbano e architettonico che non potrà limitarsi però ad un’attività tecnico-amministrativa, ma dovrà aprire spazi creativi. Si tratta di un impegno di livello mondiale in quanto l’Italia è meta da sempre di milioni di visitatori essendo nel suo complesso un museo plurale dal quale dipende per molti aspetti la stessa idea di arte. La seconda emergenza mondiale da fronteggiare è quella della insoddisfacente qualità della vita nelle nostre città. La questione ambientale è oggi, come si è già detto all’inizio di queste note, il paradigma principale per misurare l’abitare. Occorre trovare mezzi adeguati per ridurre gli sprechi, tra i quali, al primo posto il consumo di suolo; c’è bisogno di incrementare il riciclo pensando alla questione dei rifiuti in modo alternativo all’attuale. Si renderà necessario risolvere la vistosa contraddizione tra l’esigenza di strutture per la captazione delle energie rinnovabili e l’opposizione ad esse da parte di Italia Nostra, chele vede come presenze incongrue nei confronti della scena naturale. Un paradigma che si intreccia con urgenti questioni sociali, o tra le quali emerge la necessità di offrire alla città multiculturale opportune possibilità di rappresentazione. È noto a tutti ce nel nostro paese la presenza di consistenti nuclei di cittadini provenienti da molti paesi del mondo è un fatto non ancora compreso e accettato in tutte le sue implicazioni. Esso continua a essere considerato come un problema, mentre l’apporto di nuovi valori culturali e di nuove energie produttive non è stato inserito tra i fattori evolutivi più promettenti. Le città italiane hanno visto nella seconda metà del secolo scorso ampliarsi in modo vertiginoso generando periferie dense e anonime, veri e propri terrain vague che hanno soffocato i centri storici. Lo spazio pubblico è ormai qualcosa di residuale, un resto insediativo che non è più capace di ospitare attività collettive. Il verde, quando c’è, è lasciato a se stesso. Il tessuto residuale è sensibilmente degradato, al punto che in molti casi dovrebbe essere demolito e ricostruito utilizzando i criteri della sostenibilità. Il trasporto pubblico soffre la crescente aggressione di quello privato. Per questi motivi occorre urgentemente riprogettare quasi del tutto le nostre città, elevando in ogni sua parte il livello dell’abitare. Si tratta di rigenerare il tessuto urbano in sintonia co tutto ciò che può rendere la compagine sociale più solida. Per raggiungere nel modo più efficace e duratura la ricostruzione dell’Italia all’insegna di un profondo rinnovamento di mentalità, di obbiettivi e di strumenti occorre parallelamente comprendere le ragioni che hanno visto negli ultimi due decenni la nozione di paesaggio divenire centrale. Il dibattito teorico europeo ha infatti identificato nella dimensione paesistica il simbolo stesso della cultura del continente rimettendo così in discussione le idee di territorio, di città e anche di edificio. Tutto è oggi paesaggio, con il risultato per un verso positivo di favorire una estesa riscrittura degli elementi che definiscono l’abitare, per l’altro negativo di smarrire la specificità dei singoli aspetti dell’ambiente costruito, immersi in una continuità descrittiva che ne attenua fortemente la riconoscibilità. La prevalenza della questione paesistica ha una grande influenza sulle problematiche urbane. Mi limito a citare l’ipotesi della rinaturalizzazione, vale a dire l’inserimento nella città di zone sottratte all’edificazione, o liberate dai manufatti che le occupano, per restituirle a un verde più vicino a quello agricolo che a quello di parchi e giardini. La terza emergenza è di ordine macrostrutturale. L’Italia è un paese di regioni e di città, vale a dire che esso presenta come base del disegno insediativo una struttura reticolare che attiva ogni parte del territorio. Attualmente questa struttura reticolare si presenta interrotta in più punti, in altri obsoleta, in altri ancora contaminata. Questa rete, di cui fanno parte vaste aree nelle quali la centuriazione romana è ancora largamente operante, si è sovrapposto il sistema delle infrastrutture ferroviarie, autostradali e aeroportuali, aggravando la loro condizione fisica e funzionale. Un recupero capillare della struttura reticolare consentirebbe di riscoprire la misura reale del paesaggio italiano consentendo di viverlo nella straordinaria varietà che esso presenta e nella bellezza residua che ancora è possibile ammirare. Perché questo progetto possa essere realizzato occorrerà comunque superare gli ostacoli derivanti da alcuni aspetti della cultura italiana, non solo architettonici. Il primo è la soggezione alla storia. In Italia la dimensione del passato prevale talmente tanto sul presente e sul futuro da contrastare costantemente la ricerca del nuovo. Nell’architettura questo primato ha trovato una sorta di compromesso nella formula mediana di un rapporto equilibrato tra tradizione e innovazione. Una formula che per più versi finisce con il diminuire il senso di ciascuno dei due termini producendo opere dal carattere incerto e ambiguo. Un altro aspetto ostativo nei confronti del progetto di ricostruzione dell’Italia deriva da una sottovalutazione, almeno nell’architettura, della tecnica. Permeata dall’idealismo, ibridato da una forma attenuata di marxismo, dalla fenomenologia, dallo strutturalismo, dalla decostruzione del pensiero debole la cultura architettonica italiana ha sempre diffidato di qualsiasi ricerca che non riguardasse i fondamenti, i principi primi, emarginando così tutto il mondo della sperimentazione relativa all’ambito della costruzione e, più esternamente, delle scienze ambientali. Il terzo aspetto che si interpone tra il progetto che ho esposto e la sua concretizzazione consiste nella diffusa prevalenza nella riflessione storica e critica del modello della crisi come chiave interpretativa dell’architettura italiana. In poche parole il modello della crisi implica un pregiudizio radicato, che si identifica nel diffuso non credere di essere all’altezza dei problemi da risolvere. Tutta la storiografia dell’architettura italiana è pervasa infatti dall’idea di difficoltà, di fallimento. Leggendo gli scritti di Edoardo Persico, Ernesto Nathan Rogers, Giulia Veronesi, Ludovico Quaroni, Manfredo Tafuri e molti altri si incontrano infatti scenari cupi fino alla tragedia, ripetute narrazioni di disillusioni e di cadute. Questa inclinazione per una congenita negatività dell’architettura italiana nasce forse da un complesso di colpa, originato dal fatto che l’architettura moderna non l’abbiamo inventata noi, ma siamo stati costretti a importarla da fuori. A questi aspetti va aggiunto il fatto che l’Italia non ha voluto internazionalizzarsi per davvero. Pur essendo uno dei dieci paesi più industrializzati del mondo ha conservato, soprattutto attraverso la lingua, un suo isolamento il quale, molto apprezzato dalle élite culturali di molti paesi, non ha permesso all’Italia di riconoscersi come appartenente veramente al circuito mondiale. Anche per questo motivo la lingua architettonica italiana, se così si può chiamare la media linguistica degli edifici progettati e costruiti dai nostri architetti, è ritenuta molto sofisticata ma in realtà è conosciuta e parlata da pochi, anche se selezionati, italofili, quegli storici, quei critici, e quegli architetti - Peter Eisenman, Jean-Louis Cohen, Joseph Rykwert, tanto per fermarsi a tre - che identificano nell’architettura italiana un riferimento essenziale.

12. Maestri, modelli e gruppi

Si diventa architetti incontrando a scuola i propri maestri o scegliendoli tra gli architetti del passato o del presente le cui opere ci sono sembrate portatrici di elementi e di motivi per noi importanti, anche se, all’inizio del nostro itinerario formativo, non sappiamo capire sempre i motivi di questo interesse. Nel corso dei miei studi ho avuto come primo maestro Maurizio Sacripanti, il mio padre architettonico, un grande utopista la cui lezione, con il passare del tempo, continua a rivelarsi sempre più importante; Ludovico Quaroni, con il quale mi sono laureato; Bruno Zevi, che mi ha introdotto alla storia dell’architettura come materia vivente, non luogo di repertori formali da citare ma di temi costantemente rinnovati; Paolo Portoghesi, che nel corso di Letteratura Italiana mi fece comprendere il fascino della trattatistica; Manfredo Tafuri, che mi chiarì la necessità di una teoria nella quale il rigore e la passione si fondessero. Questi sono stati i maestri diretti. Assieme a loro ci sono stati maestri di questa scuola che non ho conosciuto di persona ma che ho studiato intensamente come Saverio Muratori, grande studioso delle città e autore di architetture tanto enigmatiche quanto assolute. Ho poi avuto maestri che mi sono stati indicati dalla storia dell’architettura e della cultura come Giuseppe Terragni, di cui mi sento idealmente allievo, Le Corbusier, Mies van der Rohe, Rudolf Schwarz, Giulio Carlo Argan che mi ha illuminato irreversibilmente sulla identità umana del progetto. Ho poi avuto modo di conoscere nel corso degli anni architetti come Vittorio Gregotti, Gino Pollini, uno dei membri del Gruppo 7, al quale si deve la nascita negli Anni Venti dell’architettura moderna italiana, con i quali ho avuto il privilegio di condividere alcune esperienze progettuali. Il rapporto con i maestri è intrinsecamente conflittuale, perché a un certo punto nasce in noi l’esigenza di distinguersi da loro, di diventare autonomi, di superarli. Ciò è causa di dissidi, di incomprensioni, di tensioni, a volte molto pronunciate. Spesso tra noi e i nostri maestri interviene anche una rottura insanabile. Ciò è nella logica delle cose. Accanto ai maestri ci sono poi le opere. Si impara infatti a progettare assumendo alcune architetture come modelli da rileggere criticamente riproducendoli con le variazioni necessarie. Variazioni di due tipi, quelle che intervengono quasi naturalmente, come se provenissero dalle opere stesse anche se vanno accuratamente individuate e selezionate, e quelle che noi proponiamo nell’intenzione di introdurre nei modelli elementi che li trasformino, anche radicalmente. In entrambi i casi le opere che si sono considerare esemplari esigono di essere comprese nel loro codice genetico attraverso operazioni interpretative nelle quali l’analisi logica della loro costruzione si deve unire alla capacità di intercettare le loro strutture segrete, quella connessione misteriosa che conferisce a un’architettura la sua unicità. Oltre a scegliere i maestri e a costruirsi un sistema di modelli dai quali trarre elementi e motivi, chi vuole diventare architetto dà sempre vita nei primi anni dei suoi studi a un gruppo, fatto quasi esclusivamente di coetanei, con i quali condividere la formazione, una sorta di cerchio magico che non si romperà mai, anche se nel corso della vita può accadere che i rapporti diventino discontinui e casuali. All’interno di questo gruppo, nel quale la competizione reciproca si affianca all’amicizia, si impara spesso come e più che dai maestri. I maestri, i modelli e i gruppi non bastano comunque a farli entrare nel territorio magico dell’architettura. Dobbiamo essere infatti capaci di conoscere direttamente il mondo fisico sul quale dovremo agire imparando da esso cose fondamentali sulla sua costituzione, sul suo senso, nella sua complessità segnica. Ciò significa saper vedere il territorio, la città, gli edifici con la necessaria esattezza all’interno, però, una volontà di cambiamento. Tuttavia anche questa sapienza dei luoghi e delle cose che essi ospitano non è sufficiente a comunicarci la vera natura del mondo fisico. Occorre praticare diversioni, fuoriuscire dai margini disciplinari alla ricerca di contaminazioni tra i vari codici linguistici, avventurarsi in itinerari imprevisti, sovvertire qualsiasi ordine per incontrare quel caos creativo nel quale l’errore si affianca al caso.

13. Ulteriori elementi sulla formazione

È utile a questo punto riprendere l’argomento della formazione dopo aver elencato, senza però approfondirle per questioni di tempo, alcune condizioni che caratterizzano oggi il dibattito architettonico. Esse sono la rinuncia da parte della attuale storiografia architettonica di narrazioni complete e finalizzate a favore di trattazioni monografiche e di ricostruzioni frammentarie di vicende isolate, la crisi della critica, che è divenuta una critica non più tendenziosa e quindi orientativa, ma più semplicemente informativa nel senso che si limita a indicare la provenienza e le circostanze produttive di una certa opera tralasciando di esprimere un giudizio sul suo valore; la trasformazione del progetto da strumento di conoscenza e di modificazione dell’abitare a occasione performativa originale ed eccezionale, la vicinanza e spesso l’identificazione dell’architettura con l’arte figurativa, si pensi all’idea di archiscultura promossa da Germano Celant, la moda e la comunicazione. All’interno di questa situazione, ampiamente relativista, che vede l’architettura farsi spettacolo in una inarrestabile rassegna di mediabuilding non è semplice delineare un possibile itinerario formativo. Ciò perché l’architettura, oltre a misurarsi con le condizioni appena elencate deve confrontarsi oggi con la pressante dialettica tra generalismo e specialismi, vale a dire con un orientamento che vede la disciplina architettonica come un’espressione nella quale convergono più componenti, chiamate a dare vita a una qualche forma di sintesi o, in opposizione a questa posizione, come un sistema disperso di saperi parziali, ciascuno dei quali portatore di una sua autonomia. A questo quadro già di per sé totalmente complesso da risultare poco comprensibile nei suoi contenuti e nei suoi esiti, va aggiunta la dualità tra reale e virtuale, che ho introdotto in un punto precedente del mio discorso, prevalere sul primo. In ogni modo, al di là della situazione descritta, la formazione di un architetto non può che configurarsi come una lunga e avventurosa scoperta delle infinite connessioni che legano una serie di conoscenze di natura scientifica a intenzioni di matrice artistica. L’architettura è infatti una combinazione organica di scienza e di arte che richiede la continuità nell’esercizio della ragione tipica dello studioso, la curiosità incessante che è una virtù dello sperimentatore e la forte attitudine creativa dell’artista, una energia ideativa in grado di rompere schemi formali consolidati sostituendoli con soluzioni innovative, spesso sorprendenti. Per intervenire sul mondo fisico l’architetto deve conoscerlo. Per questo occorre porsi il problema di come si può veramente pervenire a un sapere relativo al territorio, che per inciso è lo stesso ambito fisico del paesaggio, ma su questo punto occorrerà tornare, alla città e all’architettura. L’architetto deve per questo costruirsi uno sguardo in grado di rivelare non solo ciò che è esplicito, ma soprattutto quei livelli di tessitura ambientale e di stratificazione del senso che sono impliciti nell’abitare. Per raggiungere questa conoscenza l’analisi non è però sufficiente così come non lo sono le varie articolazioni specifiche del sapere architettonico. Non basta camminare nel territorio e nella città ricalcando passo dopo passo i segni che identificano una certa parte della superficie terrestre; non è neanche sufficiente disegnare, nonostante la rappresentazione grafica sia lo strumento più efficace per rendersi conto di come è veramente fatto un certo intorno del mondo, compresi gli elementi che lo strutturano; non è in fondo uno studio accurato dei sistemi insediativi, dei tracciati urbani e della costruzione tipologica dei manufatti per comprendere da solo i processi che hanno generato l’abitare in tutte le sue espressioni; non possiamo chiedere ala tecnologia, come molti invece pensano, di coprire l’intero arco della problematica architettonica, non è possibile all’urbanistica, fosse anche la più aperta e avanzata, fornirci la chiave per decifrare fino in fondo la stratificazione dei materiali 1nsediativi che definiscono il territorio e la città; non è neanche la storia a introdurci a una comprensione piena della realtà costruita così come non è il restauro, luogo teorico e operativo quanto mai diviso, ma anche tra i più fondativi dell’architettura; non si può pretendere dall’immaginario digitale di sostituirsi alla nostra capacità di pensare il nuovo, ma è l’incontro tra questi aspetti analitici a introdurci a una visione completa dell’abitare, nel quale depositeremo i nuovi segni che lo miglioreranno. Gli studenti devono rendersi conto che non si progetta e si costruisce nel vuoto, in quell’assenza di tracce che è sintetizzata nell’idea di tabula rasa. L’architettura è sempre la prosecuzione di qualcosa di preesistente in un certo ambito del mondo. Praticare la scrittura architettonica, come Manfredo Tafuri chiamava l’esercizio primario dell’architetto, comporta quindi l’agire in un campo tematico infinito e misterioso, che può essere conosciuto – sempre parzialmente, occorre ricordarlo – solo se l’immaginazione si allea con la ragione. Entrare nella regione soggettiva e a suo modo rischiosa della memoria, interpretando lo scarto tra quella individuale e quella collettiva, è una delle possibilità che noi dobbiamo utilizzare per pensare il futuro. A questo proposito va però chiarito che nessuno è mai riuscito a dimostrare in che modo la conoscenza storica sia fondamentale. Da allievo di Bruno Zevi ho sempre ritenuto che non si possa essere architetti senza conoscere la storia nel senso della critica operativa, ma sono anche convinto che la storia stessa serva per essere sublimata e superata nella sintesi superiore della forma, intendendo con queste parole il magico risultato della congiunzione alchemica tra elementi diversi, in qualche caso notevolmente, che disegnano l’arcipelago dei saperi relativi all’architettura. La forma è dunque quel luogo nel quale la fantasia e la concretezza, citando Domenico De Masi, si incontrano dando vita a un’entità astratta e insieme reale, capace di rigenerarsi costantemente. Un’entità portatrice di un messaggio di fiducia nei confronti del futuro, un messaggio che annuncia anche, come deve fare l’architettura, più felicità e più libertà per gli esseri umani. Vittorio Gregotti ha scritto più volte della necessità che l’architetto osservi la realtà facendo riferimento a una distanza critica, una lontananza e un decentramento rispetto a ciò che accade che consenta di comprendere con una certa esattezza la natura dei fenomeni nei quali si è immersi. Si deve alla distanza critica la possibilità di pensare in termini autonomi e originali l’architettura e il suo ruolo, anche se occorre riconoscere che è sempre più difficile praticare tale distanziamento dal momento che le quantità, la diversità e la velocità degli eventi sono tali da impedirci molto spesso di analizzarli. Un’ultima considerazione, che ritengo importante, anche se si tratta di una convinzione molto personale, che è nello stesso tempo un augurio. Credo che non si possa essere buoni architetti, utili alla società, in possesso della dote di rivelare aspetti nascosti del mondo, portatori di uno spirito utopico che sa confrontarsi con la realtà, se non si decide abbastanza presto di scegliere un tema che polarizzi fortemente la ricerca. Un tema architettonico come traduzione del nostro personale essere nel mondo, un tema da approfondire per tutta la vita il quale può e deve seguire i cambiamenti che coinvolgono l’architettura restando, però, sempre se stesso. Il tema è in una parola la strada da percorrere per dare un senso pieno e duraturo all’essere architetti.

14. Una definizione di architettura

La famosa conferenza di Edoardo Persico, tenuta a Torino nel 1935, dal titolo Profezia dell’architettura, in cui il più grande critico dell’architettura italiana del Novecento, a un anno dalla morte misteriosa, parla di un “movimento di carattere collettivo” come essenza e finalità della ricerca disciplinare europea, si conclude con le seguenti parole: “E non conta che questa sua pregiudiziale sia rinnegata da coloro che più dovrebbero difenderla, o bandita da chi più, vagamente, la tema: essa resterà, lo stesso, la fede segreta dell’epoca. Sostanza di cose sperate”. Questa definizione dell’architettura, che ha sostenuto la ricerca di più generazioni di architetti, è una citazione dantesca, a sua volta ripresa da un passo della Lettera di San Paolo agli Ebrei. La doppia identificazione dell’architettura con la speranza e con la fede è un’intuizione straordinaria nel suo assumere in pieno l’essenza umanistica del costruire oltre che la sacralità primaria che esso possiede, ma va compresa attentamente e compensata da qualche correzione piccola ma significativa. Occorre infatti credere fortemente nell’architettura - anche Bruno Zevi ha parlato in termini molto convincenti di questa necessità - ma non ci si può alimentare solo di speranza, un sentimento che rischia di alimentarsi di se stesso. La speranza deve infatti dare luogo al compimento di ciò che si desidera, deve uscire dalla nostra mente e dal nostro cuore per questo c’è bisogno di una speranza operante che si realizzi nel fare, evitando così che l’architettura rimanga solo una semplice anche se senz’altro preziosa proiezione dello spirito. Essa deve farsi infatti realtà concreta, espressione diretta della nostra vita, anzi, condizione primaria della vita stessa. A quasi ottant’anni da questo vero e proprio manifesto siamo oggi in grado di condividere il messaggio di Edoardo Persico integrandolo con la consapevolezza che l’architettura non può restare solo in noi stessi. Dobbiamo fermamente essere convinti dell’inevitabilità dell’agire, ciò che comporta il governo dei conflitti, il superamento di ogni altro tipo di difficoltà, il conseguimento di un sincero consenso su ciò che dovrà essere costruito. Tutto ciò per far sì che oltre la speranza ci siano i paesaggi, la città, le case.

 

 

Indice dei nomi

Accasto Gianni
Antonioni Michelangelo
Argan Giulio Carlo
Augè Marc
Bruschi Arnaldo
Caniggia Gianfranco
Celant Germano
Cohen Jean-Louis
d’Annunzio Gabriele
D'Arcy Wentworth Thompson
De Masi Domenico
De Sica Vittorio
Del Debbio Enrico
Del Vecchio Massimo
du Bellay Joachim
Eisenman Peter
Fellini Federico
Fiore Francesco Paolo
Fraticelli Vanna
Freud Sigmund
Gadda Carlo Emilio
Giovannoni Gustavo
Goethe Johann Wolfgang
Gregotti Vittorio
Gropius Walter
Johnson Philip
Kahn Louis
Koolhaas Rem
Latouche Serge
Le Corbusier
Lodoli Marco
Marconi Paolo
Mies van der Rohe
Montefoschi Giorgio
Muntoni Alessandra
Muratore Giorgio
Muratori Saverio
Nicolini Renato
Ostilo Rossi Piero
Pasolini Pier Paolo
Persico Edoardo

Piacentini Marcello
Piccinato Luigi
Portoghesi Paolo
Quaroni Ludovico
René de Chateaubriand
Rilke Rainer Maria
Rogers Ernesto Nathan
Rykwert Joseph
Sacripanti Maurizio
Spagnesi Gianfranco
Schwarz Rudolf
Tafuri Manfredo
Veronesi Giulia
Vitruvio
Wigley Mark
Wright Frank Lloyd
Zevi Bruno

 

 

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